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THE DEAD DAISIES – Holy Ground

Negli ultimi mesi, a cavallo tra il nefasto anno appena trascorso e quello appena cominciato, sono stati diversi i comeback discografici di molte band storiche ed altrettanti sono quelli in attesa di pubblicazione in questa prima parte del 2021. Certamente tra le uscite discografiche che più di altre meritano l’attenzione dei fan e degli addetti ai lavori, l’ultimo lavoro in studio del supergruppo australo-americano The Dead Daisies, ‘Holy Ground’, è tra i dischi che più di altri suscitano grandi aspettative ed eventuali dubbi dovuti ai recenti avvicendamenti di formazione.

Come è ben noto ai più, dopo il primo avvicendamento nel 2017 che ha visto l’abbandono dell’ex drummer Brian Tichy rimpiazzato subito da un superlativo Deen Castronovo (ex Journey, Steve Vai, Revolution Saints – n. d. r.) che non ha certo alcun bisogno di presentazioni, a seguito della pubblicazione dell’ottimo ‘Burn It Down’, anche il frontman John Corabi (voce, ex Mötley Crüe) e l’istrionico Marco Mendoza (basso, ex Whitesnake e Thin Lizzy) hanno abbandonato la band per proseguire con i propri progetti solisti. Molti tra i fan avevano paventato molti dubbi sul futuro di questo fantastico progetto hard’n’heavy che, con alle spalle ben quattro ottimi full lenght in studio più un live album, nel giro di poco meno di dieci anni sono riusciti a conquistarsi un posto di primo piano nella scena rock internazionale. Proprio per la grande qualità dei precedenti album, nonché per le entusiasmanti ed elettrizzanti performance dal live, molte erano dunque le aspettative da parte di tutti sulla prosecuzione di questo progetto musicale.

Ed infatti, tempo poche settimane ed eccoci annunciato il “rimpiazzo di lusso” per completare questa nuova lineup: niente di meno che “The Voice Of Rock” in persona, sua maestà Glenn Hughes (voce e basso, ex Deep Purple, ex Trapeze), un’autentica leggenda vivente che ha scritto tra le pagine più importanti del rock da ormai circa mezzo secolo! Insomma, un acquisto di prima qualità che, nonostante l’età non più giovanissima, ancora oggi ha dimostrato nei recenti progetti nei quali è stato coinvolto (California Breed e Black Country Communion solo per citarne i primi, n. d. r.) di avere ancora esperienza e carisma da vendere a tutte le giovani generaizoni di rockers, oltre di possedere naturalmente il suo caratteristico timbro canoro pressoché intatto.

Le premesse quindi per un autentico comeback con i botti ci sta tutto, vista la qualità dei quattro musicisti coinvolti, compreso il mastermind Doug Aldrich (chitarra solista, ex Whitesnake, Dio, Lion, Bad Moon Rising, Hurricane, House of Lords, ed attualmente nei Burning Rain e nei Revolution Saints – n. d. r.) ed il cofondatore David Lowy (chitarra ritmica). Il tutto condito dall’eccellente produzione di un colosso quale Ben Grosse (Dream Theater, Marilyn Manson, Sevendust, Disturbed, Depeche Mode, Alter Bridge, Thirty Seconds to Mars tra i tanti con i quali ha collaborato negli anni – n. d. r.), presente anche alle registrazioni nel disco avvenuto negli studi La Fabrique a Saint-Rémy de Provence nel sud della Francia. Parlando più strettamente del disco di imminente pubblicazione, possiamo sin da subito affermare che si tratta di un autentico successo, che certamente meriterà, appena sarà possibile visti i problemi dovuti alla pandemia, di un maestoso tour mondiale a supporto! Un prodotto di primissima qualità, che ha il grande pregio di essere riuscito ad essere alquanto variegato nelle composizioni presenti, pur non snaturando il sound caratteristico, granitico e moderno, oramai diventato un marchio di fabbrica della band.

La partenza è affidata alla tagliente ed arrembante “Holy Ground (Shake the Memory)”, che dopo uno stacco maestoso di Castronovo parte spedita, alternata da un pre-ritornello più cadenzato seguito a cascata da un refrain melodico condito da cori memorabili. Sin da subito la voce di Hughes è artefice di una prova superba, a discapito dei detrattori e dei non pochi anni sul groppone, così come ineccepibile e sublime risulta il solo di Aldrich. Con “Like No Other (Bassline)” siamo trascinati da una “silenziosa” intro di basso in un mid-tempo cadenzato, scandito da un martellante groove supportato da riff granitici sui quali si staglia impeccabile l’ugola di The Voice Of Rock, ancora capace di emozionare l’ascoltatore, sia nei passaggi più acuti che nelle tonalità baritone: pregevole anche lo stacco di basso nel bridge centrale, che ci conferma ancora una volta l’indiscussa capacità strumentistica, oltre che vocale, del nuovo frontman. “Come Alive” continua sulla scia devastante, dall’andamento quasi funkeggiante e molto ‘70s nelle strofe, mentre il ritornello è un saggio di quello che vuol dire oggi fare del sano “vecchio” (?) rock’n’roll: chapeau! Restiamo sempre su ritmi elevati con “Bustle and Flow”, tra i singoli che hanno preceduto l’album (di cui è stato pubblicato anche un videoclip – n. d. r.), dove la chitarra di Aldrich disegna delle architetture sonore semplici ma come sempre efficaci e mai banali nel valorizzare l’intera composizione che ricorda quasi i vecchi fasti dei Purple d’annata in alcune sfumature sonore e nel cantato.

Dal sound più moderno, quasi stoner, invece la successiva “My Fate”, dalle strofe più cadenzate su cui un cantato quasi meditativo di Glenn ci porta ad un’altra rock song antemica con un ritornello molto orecchiabile che entra in testa sin dai primi ascolti. Su “Chosen and Justified”, la coppia di assi alle sei corde Aldrich/Lowy è ancora una volta protagonista di un riff sostenuto e di un arrangiamento eccellente, accompagnato da un’altra prova di alto livello del nostro amato Hughes, sempre più al comando ed inserito alla perfezione nei meccanismi compositivi del combo! “Saving Grace” è un’altra song che ci descrive senza troppi giri il lato più moderno del sound del gruppo, eseguita alla perfezione e senza troppi fronzoli, pesante al punto giusto, con ottimi stacchi batteria-voce atti ad esaltare le elevate capacità tecniche dei singoli, fino al solo finale di Castronovo che si riconferma un autentico “mostro” dietro le pelli oltre che nei cori.

Altro brano che ha anticipato questo album, “Unspoken”, ci conferma tutte le ottime premesse sin qui riscontrate, anche se forse l’unica pecca riscontrata è, paradossalmente, proprio nel refrain centrale, bello ma certamente non il migliore a mio parere tra tutti quelli presenti negli altri brani del disco; il pezzo infine termina su una scia di hammond distorto. Uno dei brani certamente più ballabili, sicuramente in sede live e che a parere del sottoscritto è destinato a diventare un’autentica hit della band, è la rockeggiante “30 Days in the Hole”, che vede protagonista indiscusso proprio Castronovo sia alla voce che dietro le pelli: riff molto ottantiani e un’alternanza nel cantato Castronovo/Hughes a dir poco da brividi! Sicuramente tra i brani più riusciti dell’intero album, compreso il bridge centrale, che ci farà divertire non poco in sede live.

Ci avviciniamo alla conclusione di questo stupendo ritorno sulle scene con una “Righteous Days”, che continua ad elettrizzare l’atmosfera con un andamento roccioso, scandito da schitarrate ruggenti e da un drumming sostenuto. Anche in questo caso è alquanto notevole constatare il buono stato di forma di Hughes, capace di destreggiarsi su svariati registri canori, confermandosi, come ci si aspettava dalle premesse iniziali, il vero e proprio valore aggiunto della nuova incarnazione della band. Il disco si conclude con la lunga “Far Away”, introdotta da un arpeggio malinconico di chitarra ed interpretata da una voce quasi crepuscolare nelle strofe iniziali: indubbiamente uno degli episodi più singolari dell’album, a cavallo tra una ballad semi-acustica ed il classico brano in chiave stoner nella seconda parte. L’eterogeneità degli arrangiamenti e della composizione più in generale vengono però interpretati in maniera magistrale, risultando così di piacevole assimilazione ed andando a chiudere con un tocco quasi “sognante” l’intero lavoro.

Traendo le somme, un ritorno assai gradito e molto atteso, le cui perplessità iniziali sono state letteralmente spazzate dopo una manciata di minuti dall’inizio dell’ascolto. Signori, questo album è un autentico manifesto dell’hard’n’heavy della nuova decade, suonato da maestri autentici del genere che con alle spalle decenni interi di esperienza, riescono ancora oggi a sfornare un sound fresco e non una mera riproposizione del loro glorioso passato. Soprattutto va sottolineato l’inserimento perfetto negli ingranaggi della band sia della new entry, sua maestà Glenn Hughes, e sia del riconfermato Castronovo, che non hanno di certo fatto rimpiangere i loro predecessori ma che anzi hanno apportato ancor più valore ad una lineup costituita già da musicisti di altissimo profilo e livello tecnico. Insomma, se stiete dei fan della prima ora del gruppo sicuramente non potrete che gioirne tutti e godere di questo prodotto discografico sopraffino che vi farà scapocciare per mesi e mesi. Se invece non li avevate mai ascoltati ma siete degli estimatori del genere, questo disco deve entrare immediatamente di diritto nelle vostre mani, perché, almeno per il sottoscritto, sicuramente si confermerà tra le migliori uscite dell’anno che è appena cominciato!

Tracklist:

1) Holy Ground (Shake the Memory)

2) Like No Other (Bassline)

3) Come Alive

4) Bustle and Flow

5) My Fate

6) Chosen and Justified

7) Saving Grace

8) Unspoken

9) 30 Days in the Hole

10) Righteous Days

11) Far Away

Lineup:

Glenn Hughes: vocals & bass

Doug Aldrich: lead guitar

Deen Castronovo: drums & chorus

David Lowy: rhythm guitar

VOTO: 8,5/10

ANNO: 2021

GENERE: Hard Rock

ETICHETTA: Spitfire/SPV/Universal Music Australia

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