Dopo aver decisamente apprezzato un’uscita discografica del calibro di ‘Sotto Il Cielo di Memphis’, pubblicato lo scorso 4 Luglio per la DELTA Records & Promotion, era tanta la curiosità che mi attanagliava nel conoscere di persona (seppur indirettamente) un artista profondo e poliedrico qual’è appunto Michele Anelli. Per le cronache, il nostro non è certamente un novellino nel panorama musicale italiano, avendo alle spalle quasi trentacinque anni di carriera, dalle più variegate sfaccettature, sintomo di un’amore ed una passione innata per il mondo dell’arte (non soltanto musicale) a trecentossessanta gradi! Musicista e scrittore, Michele è stato leader e voce dei Groovers, una delle più rinomate rock’n’roll band tricolori (premio alla carriera al MEI di Faenza nel 2009), nonché fondatore e bassista, dal 1987, della band garage-punk The Stolen Cars! Ma il suo percorso artistico è stato inoltre contraddistinto da una ricerca incentrata sulla musica popolare, con riferimenti ai canti sulla Resistenza (si ricordano i dischi ‘Festa d’aprile, Oggi mi alzo e canto e Nome di battaglia: ribelli’, ‘Siamo i ribelli’ (Distorsioni) e ‘Radio Libertà’ (Vololibero). La sua carriera da solista ha inizio nel 2013 con l’album omonimo, proseguendo poi da ‘Giorni Usati’ (Adesiva, 2016), dall’audiolibro ‘La Scelta di Bianca’ (Segni e Parole editore, 2017), fino al penultimo ‘Divertente importante’ (2018), prodotto da Paolo Iafelice.
La sua ultima opera, ‘Sotto Il Cielo di Memphis’ (2021), come lui stesso ci racconta, nasce da un sogno che aveva nel cassetto oramai da diverso tempo, realizzatosi per fortuna nel 2019: un viaggio per gli USA, durante il quale Anelli ha letteralmente “respirato” l’essenza del “sogno americano” a stelle e strisce, visitando alcuni luoghi iconici del continente d’oltreoceano, alcuni dei quali hanno letteralmente segnato l’epopea del rock! Questo viaggio è culminato nella visita al “tempio del rock’n’roll”, a Memphis (Tennessee), patria del Re Elvis Presley, ma soprattutto di conoscere in persona e registrare ai leggendari FAME Recording Studios di Muscle Shoals in Alabama, costruiti dal compianto Rick Hall. E proprio in questo autentico luogo di culto, dove hanno registrato alcuni degli artisti più significativi del secolo passato, Michele ha avuto la grande occasione di collaborare con John Gifford III alla consolle (allievo e prosecutore dell’opera di Rick Hall), con Bob Wray (bassista, già nelle fila di Al Green, The Marshall Tucker Band, Ray Charles, Etta James, Clarence Carter, Johnny Cash ecc. – n. d. r.) e col giovane session man Justin Holder alla batteria. Da queste session sono nati i primi semi di quello che è diventato il suo ultimo lavoro in studio, proseguito e registrato al suo rientro in madrepatria con i Goosebumps bros. (Cesare Nolli, Paolo Legramandi e Nik Taccori, rispettivamente chitarra elettrica, basso e batteria – n. d. r.) ai Fireplace Studio di Como nell’Ottobre 2020.
E’ stato dunque un vero piacere, per il sottoscritto, poter disquisire assieme al nostro ospite non soltanto delle tematiche e degli aneddoti riferiti a questa sua “esperienza formativa” statunitense, bensì anche e soprattutto di argomenti inerenti il nuovo album, il suo approccio artistico, sia compositivo che lirico, i suoi principali punti di riferimento musicali e molto altro ancora! Quando si è di fronte, seppur virtualmente, ad una persona dalla sensibilità profonda com’è appunto Michele, sono molteplici le curiosità che vengono alla mente durante questa lunga ed avvincente conversazione, condite da un pizzico di ironia e ottimismo che fa sempre bene, soprattutto in questi periodi di grande incertezza! Insomma, allacciate le cinture e partite assieme a noi per questo lungo viaggio tra panorami sonori ed artistici a volte distanti, ma pur sempre vicini: perchè in fondo, sognare non costa nulla!
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Salve Michele, grazie innanzitutto per il tempo prezioso che ci stai concedendo e benvenuto sulle pagine di VeroRock.it, sono veramente contento di conoscere un artista poliedrico del tuo calibro! Grazie per la vostra attenzione e per i complimenti che non sono mai scontati e riceverli è sempre bellissimo!
Partiamo con la prima doverosa domanda: lo scorso 4 Luglio è uscito il tuo ultimo lavoro in studio, ‘Sotto Il Cielo di Memphis’, per la DELTA Records & Promotion! Com’è stato accolto dalla critica di settore e dal pubblico in generale? Pubblico canzoni dalla fine degli anni ottanta e questo album ha superato ogni disco precedentemente pubblicato. Mi ha parzialmente sorpreso ricevere così tante recensioni con giudizi che vanno dall’ottimo all’eccellente. Dico parzialmente perché avevo già ricevuto fantastici feedback da chi aveva ascoltato in anteprima il nuovo album. Non voglio peccare di presunzione ma nemmeno risponderti con frasi di circostanza. Difficilmente tutto si tradurrà in grandi vendite ma queste attenzioni è come se certificassero “un’esistenza”. Diversamente dal passato non è la recensione che ti fa vendere che, pur non essendo la cosa principale a cui pensi mentre componi, è un aspetto da considerare per non andare incontro a grossi deficit. In ogni caso, accoglienza strepitosa, e ne sono estremamente felice.
Come tu stesso lo descrivi, questo quarto disco solista “è un progetto discografico che nasce da un viaggio negli Stati Uniti, un sogno accarezzato a lungo che sta per diventare realtà”. Ci racconti brevemente la storia della genesi di questo disco? Dopo “Divertente importante” sentivo di aver chiuso un ciclo. Nella primavera del 2019, a poco meno di un anno dall’uscita dell’ultimo album, ho ricominciato a comporre, trovandomi, in breve tempo, ad avere circa venti nuovi brani. Stavo esplorando nuove forme di scrittura, ma cercavo qualcosa in più di quello che avevo composto. Pianificando gli spostamenti all’interno di un significativo viaggio con Federica negli States, nei vari appartamenti dislocati in differenti città, delineammo una sorta di viaggio musicale che comprendeva New York, Asbury Park NJ, Nashville, Memphis, Clarksdale, Tupelo e Muscle Shoals. Tenuto conto che avremmo terminato il viaggio nella cittadina dell’Alabama dove, negli anni sessanta, Rick Hall creò i FAME recording studios, mi venne spontaneo immaginare se fosse stato possibile registrare lì qualcosa di nuovo. Al rientro dal viaggio con le due canzoni registrate a Muscle Shoals e nella mente ancora tutto quello che avevo respirato, ho iniziato a scrivere le canzoni dell’album. In poco meno di due anni, una trentina di canzoni: alcune sono state pubblicate su un cd allegato a un libro di Agostino Roncallo, altre fanno parte dei cinque demo pubblicati nel cd ‘Sotto il cielo di Memphis e altre storie’, due compongono il 45 giri e le restanti, più recenti, sono nell’album ‘Sotto il cielo di Memphis’.
Quali sono stati, secondo te, i principali momenti di crescita interiore che hai vissuto durante il viaggio degli USA che hai intrapreso a Settembre 2019? Quanto ha inciso la visita a Memphis (Tennessee), patria del Re Elvis Presley? Memphis è stata la tappa fondamentale, il luogo dove più di ogni altro ho trovato quello che avevo sempre desiderato vedere e “sentire sulla pelle”. Potrei raccontarti per ore del Sun Studio, o dello Stax Museum, del Civil Rights Museum e, inaspettatamente ne è valsa la pena, anche di Graceland. Non c’è stata ora o giorno in cui non abbia trovato pazzesco tutto ciò che incontravo. Quell’energia positiva l’ho riversata nel nuovo album. I giorni a Memphis sono stati la realizzazione di un sogno coltivato a lungo. Momenti in cui, nonostante sia diverso da un tempo, riuscivo a sentire il “respiro” di un luogo per me magico. Negli studi della Sun Records, quando la guida ci indicò il punto esatto sul pavimento, contrassegnato da una “X” di nastro adesivo, dove Elvis Presley, Johnny Cash, Carl Perkins, Jerry lee Lewis e decine di altri si mettevano a cantare, ho pianto dall’emozione. Come un bambino sulla sua giostra preferita, lacrime di felicità emotiva. Dal museo della Stax non volevo più uscire. Al mattino, appena arrivati nel parcheggio, situato tra la scuola e il museo, scesi dall’auto, ci sembrava fossimo entrati in un film. Dagli altoparlanti, sparsi per il parcheggio, usciva musica soul: Martha & The Vandallas che cantavano Dancing In The Street e seguire altri classici della Stax. Eravamo ancora nel parcheggio e c’erano già tutte le premesse per un’esperienza indimenticabile!
A livello di testi, ho notato una inusuale profondità negli argomenti trattati, quasi una sorta di “dipinti autobiografici”, in cui poesia e musica si intrecciano nel creare suggestivi e, a volte, malinconici “paesaggi sonori” di vita vissuta. Sono nati prima i testi o sono stati adattati in funzione dei brani da te composti? Si può parlare di una sorta di ‘concept album’, o, invece, non esiste alcun legame stringente tra le varie canzoni? Non so se siano malinconici, introspettivi sicuramente. Tutti i brani hanno un legame e possiamo considerarlo un “concept” album. Ho scritto fin dai tempi dei Groovers testi a tema politico e/o sociale, spesso con il punto di vista di chi mi ha raccontato le proprie vicissitudini. In questo album sembra mi sia allontanato da questa formula, in realtà penso sia altamente politico e sociale parlare di rapporti rapportandomi alla società odierna. La parte autobiografica rimane tale fino alla pubblicazione. Immagino che un testo in cui canto “liberi si è liberi insieme” possa dare interpretazioni differenti in base al vissuto personale e alla visione che la gente può avere dopo l’ascolto. In ogni caso è vero, non mi sono mai esposto così tanto. Sarà l’età? Con questo album volevo ripercorrere un vissuto di rapporti personali che affonda le radici anche nella musica. Perché la musica è la colonna sonora delle nostre giornate, perché in casa ho una televisione e almeno quattro stereo più altre fonti di riproduzione sonora, perché ascoltiamo costantemente dischi e li comperiamo pure! Riguardo a come compongo, posso dirti che le canzoni nascono dalle idee e non ho una regola precisa per cui nasce prima il testo o la musica. Certamente, come canto in alcuni brani, scrivo parecchi appunti e poi, in base alla melodia, al cantato, all’idea che mi faccio quando cerco di trovare il mood sonoro a me più congeniale, le parole possono subire variazioni. Ho lavorato molto sulle parole, da sempre, e in modo ancora più serrato e puntiglioso da quando canto in italiano. Non sono un De Gregori o un De André, sono chi sono e cerco di migliorarmi costantemente conscio di tutti i limiti che ho.
Nonostante il disco sia nato durante questo “viaggio di formazione” in terra americana, i testi sono, come già negli album precedenti, in lingua italiana. Hai pensato in futuro magari di comporre brani anche in lingua inglese o altre lingue? Ho un passato di cantante dei Groovers con sette album all’attivo in inglese. Difficile, e poco probabile, possa ritornare a quella formula, a meno di qualche proposta concreta come quella ricevuta dal promoter Larry Weir che mi ha chiesto, per il circuito di radio americane, la versione inglese di alcuni brani del disco. Una proposta su cui sto ragionando e che comporta alcune oggettive difficoltà. Oppure, proprio in questi giorni, quella per la colonna sonora di un film. Per avere una certa dimestichezza con l’italiano ci è voluto del tempo. Al quarto disco ho acquisito più sicurezza e malleabilità vocale rispetto ai precedenti. Per mantenere un buon livello di cantato con la parola italiana ci vuole molto lavoro, così come per preparare qualcosa per il mercato estero. In altre lingue non penso sia una strada praticabile.
Durante il tuo soggiorno statunitense hai avuto modo di visitare i leggendari FAME Recording Studios di Muscle Shoals in Alabama, collaborando con professionisti e musicisti di alto profilo, quali John Gifford III (alla console), Bob Wray (basso) e Justin Holder (batteria). Raccontaci questa indimenticabile esperienza e come è nata e si è evoluta questa interessante collaborazione! Una volta deciso l’itinerario per il viaggio negli States, scrissi al FAME recording studio, e la segreteria dello studio mi mise in contatto con John Gifford III, il tecnico del suono che ha proseguito il lavoro di Rick Hall. Fissammo così la giornata in studio con un paio di musicisti in loco. Durante il nostro viaggio, ho assorbito tutto quello che potevo della magia musicale con cui ero cresciuto e che ora, finalmente, potevo “attraversare” e “sentire”. Avevo l’anima caricata a mille quando giunsi a Muscle Shoals per registrare “Ballata arida” ed “Escluso il cielo” (i brani pubblicati con il 45 giri). John mi fece incontrare Bob Wray (bassista dall’esperienza pazzesca) e il batterista Justin Holder (ricercato session man del FAME). Con naturalezza, professionalità e tante risate non ci mettemmo molto ad arrangiare e a registrare le due canzoni che avevo inviato loro in versione demo prima del viaggio. Con John e soprattutto Bob, tramite messaggi, ci sentiamo ancora. Bob ha una carriera straordinaria ma mi ha sempre considerato alla pari, con grande rispetto.
Riguardo, invece, la copertina del disco, se non erro, mi sembra sia una foto che ritrae i FAME Recording Studios. È stata scattata da te oppure ti sei avvalso dell’aiuto di un artista in particolare, almeno in fase di editing e postproduzione? Le foto di copertina, sia del 45 giri che dell’album (Lp/Cd), le ho scattate io. Quella del FAME, sul 45 giri, è stata fatta prima di entrare in studio a registrare. Una serie di scatti per immortalare il momento che stavo vivendo. La foto dell’album ritrae lo studio della Sun Records a Memphis. L’ho scattata il giorno del nostro arrivo alle sei di sera. Non c’era in giro nessuno e l’atmosfera era già pazzesca sfiorando solo i muri. Le foto sono state adattate per la realizzazione della grafica. Soprattutto nel caso del 45 giri, con lo stabile degli studi di registrazione FAME. Un lavoro svolto magistralmente da Cristina Menotti che, da qualche anno, si occupa dell’aspetto grafico delle mie pubblicazioni.
La tua carriera da solista ha inizio nel 2013 con l’album omonimo, proseguendo poi con ‘Giorni Usati’ (Adesiva, 2016), il successivo audiolibro ‘La Scelta di Bianca’ (Segni e Parole editore, 2017), ‘Divertente importante’ (2018), prodotto da Paolo Iafelice, fino all’ultimo ‘Sotto Il Cielo di Memphis’ (2021). Quali i principali punti di comunanza e di differenza con i dischi precedenti? L’album allegato al libro “La scelta di Bianca” ha un percorso a parte. Non è l’unico caso. Ho altri dischi pubblicati in allegato ai libri che, oltre alla finalità di essere complementari al contenuto dei racconti, sono utili alla sperimentazione e alla pubblicazione di outtake. Il disco omonimo, “Giorni usati” e “Divertente importante” li considero una trilogia. Un percorso necessario e di crescita che mi ha permesso di migliorare, in italiano, sia la scrittura dei brani che la voce. Li considero dei tasselli fondamentali che mi hanno permesso di arrivare a “Sotto il cielo di Memphis”. In comune hanno l’evoluzione sonora, la costante ricerca di un punto di unione tra il folk-rock e il soul e alcuni temi trattati che si sono poi consolidati e meglio esposti nell’ultimo album. La differenza sostanziale sta nell’approccio musicale, nella scelta di avere un gruppo affiatato, come i Goosebumps bros., ad accompagnarmi durante le registrazioni. Una scelta che ha pagato in termini di coerenza sonora.
Oltre ad essere stato leader e voce dei Groovers (premio alla carriera al MEI di Faenza nel 2009), sei stato anche fondatore e bassista, dal 1987, della band garage-punk The Stolen Cars. Come si è evoluto il tuo gusto musicale ed il tuo approccio da musicista? Quali i momenti migliori e più gratificanti, nonché quelli da dimenticare? Mi sono sempre considerato un “operaio” della musica. Sono autodidatta e, in quanto tale, ho sviluppato un modo personale di approccio allo strumento. Ho imparato molto lavorando con altri musicisti e traendo ispirazione su come “adattare” alle mie possibilità ciò che vedevo e ascoltavo. Non ho mai avuto pazienza nello studio e nella mia vita non ho mai smesso di suonare e scrivere e, contemporaneamente, crescere una famiglia con tre figli. Ho dedicato tutto il tempo che potevo a perfezionare la scrittura di una canzone. Non si smette mai di imparare, è un processo lavorativo in continua evoluzione. Come gusto musicale ho allargato alcuni confini rimanendo legato alle origini sia di ascolto che come musicista. Ancora oggi il garage-punk è parte integrante dei miei ascolti e il soul, il funk, il R&B hanno una parte predominante rispetto agli inizi. Per cantare in italiano mi sono immerso nel mondo dei cantautori degli anni settanta e ottanta. Pur conoscendone la gran parte, ho approfondito l’ascolto acquistando parecchi dischi nei mercatini.
Di momenti gratificanti, fortunatamente, ne ho avuti molti: non potrò mai dimenticare, a metà degli anni novanta, situazioni come quella dell’estate del 1995 quando ho suonato a Conegliano Veneto in un teatro sul cui palco erano seduti Fernanda Pivano, Allen Ginsberg, Fabrizio De André, Francesco Guccini e altri importanti ospiti. All’epoca musicai una poesia di Ginsberg che, tra le tante che vennero inviate agli organizzatori, venne scelta come la miglior composizione di un testo del poeta della Beat generation. Ci trovammo così, come Groovers, sul palco vicino a tutti loro. Oggi avremmo riempito le bacheche dei social con foto e registrazioni. Di quella serata, purtroppo, non ho nemmeno una foto. Solo un articolo di giornale e un video di loro che parlano che qualcuno ha messo su Youtube. Un’altra soddisfazione è stata quando, nel 1997, una rivista musicale ha inserito l’album dei Groovers, ‘September Rain’, tra i migliori italiani dell’anno. Pochi anni dopo, nel 2000, la cosa si è ripetuta con il quotidiano Liberazione che elesse ‘That’s All Folks!!’ come miglior disco italiano dell’anno. È stato molto bello anche quando, nel 2009, ho ricevuto due targhe di riconoscimento artistico, una dal MEI di Faenza per la ventennale carriera dei Groovers e l’altra da un’ANPI novarese per il percorso musicale e il lavoro di ricerca sulla Resistenza italiana. Potrei raccontarne ancora ma rischio di sembrare il nostalgico che non sono. Tra quelli da dimenticare potrei citare le difficoltà avute con alcuni musicisti anche in anni più recenti ma penso sia una cosa comune a molti. Un episodio che mi piacerebbe rivivere, ma cambiandolo, è stato quando, sul finire della storia con i Groovers, venimmo chiamati in Veneto ad aprire il concerto ai Nine Below Zero. Non fummo brillanti. Nonostante l’esperienza acquisita, l’innesto di qualche elemento nuovo, nelle settimane precedenti all’evento, fu una scelta sbagliata. Avevamo di fronte 1500 persone e il set non mi piacque per nulla. Inoltre i Nine Below Zero erano una macchina da guerra. Fenomenali sotto ogni punto di vista. Forse fu in quella serata che meditai che i Groovers erano giunti al capolinea!
Ho notato con immenso piacere la tua proposta musicale alquanto ricca ed eterogenea, contraddistinta da un variegato background musicale, frutto certamente della tua ultra trentennale esperienza da musicista, spaziando dal cantautorato rock al country/blues, il tutto intriso da un tocco di psichedelia vintage! Quali, nello specifico, i tuoi ascolti principali di ieri e di oggi, gli artisti e le band che hanno influenzato la tua formazione sia di musicista che di ascoltatore? Ricordo i 45 giri che giravano per casa e dai primi album che comprava mio fratello maggiore Mirco. Sul finire degli anni settanta certe trasmissioni radiofoniche, come Alto Gradimento, o televisive, come L’altra domenica, e, un paio di anni dopo, Mr Fantasy, aprirono le porte a nuovi suoni e immagini. Se tra i 14 e i 16 anni il mio mondo musicale era confinato tra Bennato, Finardi, Bertoli e AcDc, Deep Purple, quelle trasmissioni ebbero il pregio di farmi sconfinare, guardare e ascoltare oltre a quello che avevo a portata di mano. Considera che abitavo in un piccolo paese sulle rive del Lago Maggiore e bastava poco perché qualcosa generasse stupore e cambiamento. Così, quando un amico prima mi prestò e successivamente mi vendette le copie di ‘London Calling’ dei Clash e ‘The River’ di Springsteen, si aprì un ulteriore spiraglio di luce nel quale mi gettai a capofitto. Nel frattempo presi il primo album dei The Cure e ‘October’ degli U2. Con quella manciata di album cominciò una storia che continua tuttora e quei dischi sono ancora con me. Mi sono un po’ perso i primi anni novanta, il cosiddetto grunge e il brit-pop. In quegli anni, tra la nascita di tre figli e i Groovers, che erano nel loro momento migliore e, dunque, molto impegnativo, il tempo da dedicare all’esplorazione musicale era effettivamente poco. Ricordo che nel 1997 un concerto degli EELS, a Milano, ai Magazzini Generali, influì molto sulle scelte future. Insieme ai Wilco, penso siano coloro che più di ogni altro hanno generato una svolta nel mio approccio alla canzone. Per questo album penso di essere stato influenzato dai dischi di Michael Kiwanuka e da band come Black Pumas, Durand Jones & The Indications e i sempre presenti Wilco. La miscela finale che caratterizza “Sotto il cielo di Memphis” nasce un po’ da questa combinazione.
Dopo il tuo rientro in Italia, tra tra fine settembre e i primi di ottobre 2020, hai iniziato le registrazioni del tuo quarto album ai Fireplace Studio in provincia di Como. Come mai sono trascorsi diversi mesi prima della sua effettiva pubblicazione, avvenuta a luglio 2021? Al rientro, sul finire dell’anno e in parte della primavera successiva, ho messo in ordine gli appunti e iniziato a sistemare tutto quello che avevo abbozzato. Ho registrato i primi demo e, nell’arco di poco tempo, mi sono ritrovato una ventina di canzoni. Ho lavorato incessantemente sulle parole e sulla melodia di ogni singola canzone. Al termine sentivo di aver creato “gruppi” di canzoni che si legavano tra loro per testo e musica. Come avere degli album distinti. La scelta non è stata difficile perché il nucleo delle canzoni di “Sotto il cielo di Memphis” aveva qualcosa in più. Anche in acustico, mi accorgevo di come stavo bene mentre le suonavo. A metà estate ho preso contatto con Nik Taccori, che aveva già suonato nei miei precedenti due dischi, e con cui, tempo prima, parlai dei Goosebumps bros, la band che abitualmente accompagna i concerti di Big Daddy Wilson. I discorsi però erano andati a toccare argomenti differenti, dai gusti musicali allo studio in cui operavano. Così ci incontrammo a fine estate e ci trovammo d’accordo per organizzare le registrazioni, al termine delle quali, i primi di ottobre, il nuovo lockdown tornò a bloccare gli spostamenti. Con qualche difficoltà, portammo a termine alcuni overdub in primavera, su suggerimento di Nik, scelsi Taketo Gohara per il mix, terminato il quale venne il momento del master. Versari è un professionista affermato e pieno di lavoro e così il tempo trascorreva, tra prove di grafica con Cristina Menotti e gli accordi con la Delta Records & Promotion. Per stampare il vinile ci sono voluti quasi 90 giorni ed ecco che luglio era alle porte. Tutto è arrivato appena in tempo per l’uscita.
Durante le registrazioni ai Fireplace Studio, hanno ontribuito alla realizzazione del disco i Goosebumps bros., ovvero Cesare Nolli (chitarra elettrica), Paolo Legramandi (basso elettrico) e Nik Taccori (batteria), con l’apparizione in veste di ospiti di Andrea Lentullo (Wurlitzer) ed Elia Anelli (chitarra elettrica). Puoi raccontarci, brevemente, il processo di registrazione ed il contributo specifico di ciascuno dei musicisti coinvolti? Precedentemente all’inizio delle registrazioni ho dato ai Goosbumps i brani in versione demo (acustica e voce). Al Fireplace provavamo i brani al mattino e li registravamo durante il pomeriggio/sera. Batteria, basso e chitarra elettrica sono live. Pertanto la base è stata registrata tutta in diretta. Con loro ho registrato anche quasi tutte le parti di chitarra acustica. Successivamente, nel mio studio, ho registrato le voci e le parti di Elia e Andrea. Nolli, Legramandi e Taccori sono stati il motore dell’album. Eseguivo una versione acustica e ci confrontavamo subito su quali suggestioni sonore avrebbero potuto aiutarci per l’arrangiamento. Ovviamente avevamo già discusso insieme, prima, su quali fossero, per me, le prerogative musicali per l’album, e non sono mai sorti problemi nella definizione di ogni canzone. Loro avevano inteso perfettamente quale era il mood. Per la prima volta, da quando canto in italiano, ho percepito veramente che sia stava realizzando esattamente ciò che era nato nella mia mente componendo il pezzo. Sono stati determinanti in questo disco. Elia e Andrea hanno completato il lavoro inserendosi alla perfezione nelle trame già definite con i Goosebumps. Con entrambi lavoro da tempo e comprendono in fretta quali sono le cose che preferisco.
Tra i brani presenti in questo tuo ultimo lavoro in studio, a quale ti senti maggiormente legato e perché? Quale, invece, il brano che ha richiesto maggior tempo nella fase di composizione e di registrazione? Penso che “Appunti” e “Ballata Arida” siano i due brani che possano rappresentare al meglio lo spirito dell’album. I testi condensano gli argomenti trattati e musicalmente sono la sintesi di quello che si può ascoltare in ‘Sotto il cielo di Memphis’. L’unica canzone che ha avuto più di una versione è stata “Tenerezza”. Avevamo terminato alla sera con un arrangiamento che potrei definire scolastico. Il mattino successivo l’abbiamo ripresa e arrangiata in linea con gli altri brani.
In alcuni brani presenti nel disco si riscontra anche la presenza di una bellissima voce femminile, in particolare in “Ballata Arida” e “Quello che Ho”: chi è l’ospite in questione? L’ospite è Elisa Begni. Con lei sono entrato in contatto attraverso Elia. A causa del lockdown, abitando in regioni differenti, ha provveduto da sola a registrare le parti su basi ormai definite. Ha fatto un eccellente lavoro, cantando con la giusta intenzione i due brani.
L’intero disco è costellato da momenti maggiormente elettrici ed altri più inerenti la sfera acustica, intrecciandosi a più riprese tra di loro. Da musicista con un background ricco e variegato, quali sono le peculiarità che riscontri in entrambe le dimensioni sonore? Mi piace scrivere e arrangiare le canzoni pensando a un mix elettroacustico e non dare coordinate precise alle canzoni. Difficilmente rimango ancorato alla forma classica di un brano ovvero strofa/ritornello/strofa/ritornello/bridge e finale. In ‘Sotto il cielo di Memphis’ quasi tutti i brani hanno due momenti differenti e poco definibili con lo schema di cui sopra. In entrambi i casi, elettrico o acustico, chiedo sempre un drumming deciso, carico di groove, cercando direzioni che non siano troppo tradizionali.
Il nuovo album segna anche l’inizio della collaborazione artistica con la DELTA Records & Promotion. Com’è nata questa partnership? Hai avuto modo di conoscere altri artisti della suddetta etichetta? Con quale di questi ti piacerebbe magari collaborare? Dopo ‘Divertente Importante’ avevo deciso di chiudere la collaborazione con Adesiva discografica. Una decisione non semplice perché le opportunità lavorative erano state molto importanti. Ma era nata in me l’esigenza di una totale libertà espressiva. I due album pubblicati con Adesiva erano stati ben accolti dalla critica e dal pubblico ma erano stati costellati da difficoltà organizzative e, in alcuni casi, sentivo che avremmo potuto rischiare qualcosa di più dal punto di vista sonoro. Una volta indirizzato il suono del nuovo album ho preso contatto con alcune etichette. Con Fabio, che conoscevo per aver condiviso un paio di concerti con band differenti, ci siamo incontrati, tenuto conto che non abitiamo distanti, mentre con altri il contatto è avvenuto telefonicamente. Alla fine ho optato per la sua Delta perché sentivo che potevo liberamente seguire una parte di lavoro, senza essere costretto a sottostare a particolari modalità per veicolare l’album in uscita. Ho avuto modo così di apprezzare la sua semplicità lavorativa eseguita con particolare passione. È una persona che lavora con serietà, che ha le proprie idee e le porta avanti con determinazione. Con la sua etichetta collaborano artisti molto interessanti. Di alcuni conosco le pubblicazioni e, in certi casi, anche le persone. Sulle collaborazioni non saprei dirti, sono sempre aperto alla contaminazione musicale, a quello che musicisti differenti possono apportare alle canzoni. Probabilmente i Mountain’s foot perché hanno una bella energia sonora e potrebbe essere intrigante sentire cosa potrebbe accadere a una canzone come, per esempio, “Sono chi sono” che chiude l’album.
Tornando al tuo soggiorno americano, e nello specifico alle registrazioni avvenute ai FAME Recording Studio sotto la supervisione di John Gifford III, si sentono degli arrangiamenti leggermente differenti rispetto alle rispettive versioni ufficiali “italiane”. Se dovessi fare un confronto tra le due realtà in cui hai registrato, quali le differenze nell’approccio in studio da parte dei musicisti? In realtà devo dirti che sono stato fortunato perché, in entrambi casi, ho avuto la massima disponibilità e professionalità da parte di tutti i musicisti coinvolti. Sia negli States che qui in Italia l’approccio è stato il medesimo. Ascolto del brano in acustico, ricerca dell’arrangiamento, due o tre take per indirizzare il suono e base live finale. Ognuno ha dato la propria impronta, con dedizione e attenzione ai dettagli. Mi hanno fatto sempre sentire a mio agio e l’atmosfera rilassata ha permesso di dare il meglio. Penso si possa percepire una carica positiva emergere in tutte le canzoni.
Riprendendo il discorso relativo alle liriche, quali sono le tue principali fonti di ispirazione nella scrittura dei testi? Quali le suggestioni che, più in generale, cerchi di trasporre nei tuoi brani? Ho due principali ispirazioni: i libri e i racconti delle persone. Nel primo caso, come canto, leggo veramente tre libri alla volta. Mi piace avere più possibilità di lettura per assecondare l’umore del momento. Per anni ho sottolineato e scritto appunti a fondo pagina. Da qualche tempo utilizzo piccoli quaderni su cui annotare frasi nelle quali intravedo suggestioni importanti. L’altro aspetto è l’ascolto: spesso, prima o dopo un concerto o un incontro di presentazione, ascolto le persone raccontare. I temi variano dalla fabbrica alla Resistenza, dai viaggi ai sogni, dai dolori e le fatiche alle gioie e i traguardi. Assorbo le parole e le lascio sedimentare nei miei pensieri. Nel loro insieme mi permettono di creare storie verosimili. Tempo fa, una ragazza operaia, mi chiese quanti anni di lavoro in fabbrica avessi fatto. Riteneva che i testi esprimessero un sentimento diffuso che accomunasse il lavoro operaio. Io ne fui, ovviamente, felice e lei rimase sorpresa quando le dissi che non avevo mai fatto l’operaio nemmeno per un giorno. Per lei fu straordinario riconoscersi in storie che nemmeno chi lavorava in fabbrica avrebbe potuto raccontare meglio!
“Fino all’Ultimo Respiro” inizia su un breve solo di organo, al quale fanno seguito gli altri strumenti, in un mid-tempo che ricorda molto la celeberrima “Hey Oh” dei Red Chili Peppers nella melodia e nel ritornello centrale. E’ una semplice casualità o sei stato ispirato nelle melodie dal brano della celebre band californiana? Una casualità. Conosco i RHCP ma, potrà sembra strano, tra le migliaia di dischi che ho, non figura nessuna loro pubblicazione.
Il brano “Giovanni e il R’n’R come cura contro l’Indifferenza”, narra la vita di un artista rock’n’roll avvolta dalla passione per la musica, contraddistinta però dalle difficoltà economiche nel raggiungere il sogno tanto agognato. Visti gli evidenti rimandi con la situazione musicale attuale, cosa ne pensi della scena rock italiana odierna? Quali gli artisti con cui hai un rapporto speciale? Il discorso è complesso e ci vorrebbe veramente tanto spazio, per argomentare bene la situazione musicale italiana attuale. Rischierei di fare una disamina imprecisa. Frequentando questo mondo dagli anni ottanta la mia visione è, in qualche modo, condizionata dall’età, dal gusto e dalle tante situazioni vissute. Posso solo dire che, per molto tempo, registrare e pubblicare un disco richiedeva uno sforzo nettamente maggiore. I costi degli studi, dei nastri, delle pubblicazioni erano alti ma compensati da innumerevoli concerti. Al contrario, oggi, è più semplice registrare e pubblicare e più difficile suonare. Il rapporto con i musicisti è buono. Mi trovo a mio agio con coloro che dicono le cose come stanno senza troppi giri di parole. Non sopporto le falsità. Ho mantenuto buoni rapporti con chi era con me negli Stolen Cars e, ma in questo caso i musicisti che sono entrati e usciti erano numerosi, con alcuni dei Groovers. Ho prodotto un artista della mia zona, Enrico Maio Maiorca, che ha pubblicato un disco molto particolare e a cui sono particolarmente affezionato. Max Ferraro, che è stato il batterista dei Groovers dal 2001 in poi e degli Stolen Cars, nel periodo reunion, è stato protagonista in qualità di pittore del video di “Spalo Nuvole”. Ho ripreso felicemente i rapporti con Paolo Enrico Archetti Maestri degli YoYo Mundi. Una band con cui mi sono incrociato più volte con i Groovers ma con cui, da anni, non avevo più rapporti. In generale mantengo rapporti con artisti che hanno mantenuto un profilo coerente, per me è una condizione indispensabile per stare bene insieme.
Vista la recente uscita di ‘Sotto Il Cielo di Memphis’, nonostante la perdurante situazione pandemica, hai già avuto modo di promuovere il disco con alcune date live o, almeno, hai in programma dei concerti da ui ai prossimi mesi? Avremmo dovuto presentare l’album lo scorso 30 luglio ma, a causa delle previsioni meteo avverse, è stato rimandato a martedì 7 settembre. È un concerto full band che serve per presentare il lavoro con chi ha suonato nell’album. Successivamente è tutto un work-in-progress dovuto anche alla difficoltà del momento che perdura dal marzo dello scorso anno. Inoltre sono anni che suono unicamente in posti dove le persone vengono per ascoltare. Una scelta che ho adottato da quando ho iniziato a cantare in italiano, che è stato come ripartire da zero o quasi.
In riferimento sempre alle future date live, quale sarà la lineup che ti accompagnerà on stage? Ci sarà qualche ospite in particolare? Tutto dipenderà dalle situazioni che si andranno a creare. Devo garantire il giusto compenso a ogni musicista e se l’occasione lo permette saremo full band, altrimenti mi organizzerò di conseguenza. Ormai sono abituato ad affrontare di volta in volta il contesto in cui andrò a esibirmi.
Quali sono attualmente i tuoi ascolti musicali? Ci sono band anche recenti e più giovani che ti hanno in qualche modo interessato come ascoltatore nell’ultimo periodo? Cosa pensi del fenomeno mediatico dei Måneskin? Band come Black Pumas o Durand Jones & The Indicators o artisti come Michael Kiwanuka sono stati un punto di riferimento per alcune scelte che ho adottato per il nuovo album. In modi differenti, hanno saputo portare la canzone folk dentro il soul e viceversa. Penso che Kiwanuka e i Black Pumas in particolare, siano riusciti a prendere il filo interrotto di Otis Redding con ‘The dock of the bay’. Inoltre, imprescindibili, ogni volta che penso agli arrangiamenti tengo presente la discografia dei Wilco che è, per me, il ponte ideale tra passato e presente della canzone rock americana. Riguardo ai Maneskin non ho molto da dire. Non mi emozionano, però sanno stare sul palco e hanno molta energia. Preferisco loro a Gabbani & co. Presumo che, a livello mediatico, abbiano alle spalle qualcuno che ha investito molto. Non so, come band, quali ricadute economiche abbiano ora. Indiscutibilmente sono diventati famosi e auguro loro di resistere e di non farsi travolgere.
Negli anni hai avuto la grande opportunità e l’onore di condividere il palco ed il lavoro in studio con diversi musicisti italiani ed internazionali. Quali quelli a cui sei particolarmente legato? Quali invece quelli con cui ti piacerebbe collaborare in futuro? Il legame si crea nel corso del tempo e, come è capitato, le cose possono cambiare. Non sempre in meglio. Vivo molto il presente e non guardo spesso al passato che non puoi modificare. Oggi collaboro con persone con cui mi trovo a mio agio e ogni rapporto è figlio del tempo che vivi. In futuro mi piacerebbe lavorare con un produttore che mi possa aiutare ad andare oltre ai miei limiti di arrangiamento. Penso spesso a uno come Jeff Tweedy dei Wilco. Il lavoro che ha fatto nei dischi di Mavis Staples l’ho trovato eccezionale. Anche il chitarrista Adrian Quesada dei Balck Pumas potrebbe essere interessante. Alla fine però contano gli investimenti e, ad oggi, rimangono come i più classici sogni nel cassetto.
Se potessi scegliere un artista del passato (vivente o deceduto) con cui suonare assieme chi sceglieresti e perché? Nel presente mi pacerebbe che un mio album fosse prodotto e suonato interamente con i Wilco oppure con il chitarrista dei Black Pumas, Adrian Quesada. Perché, in entrambi i casi, sono certo che le canzoni prenderebbero strade altamente intriganti. Per il resto la lista sarebbe lunga, molto lunga. Certamente uno scambio di idee in studio e sul palco con Rino Gaetano mi avrebbe aiutato a cantare con ironia storie importanti. Produrre un album di Pierangelo Bertoli, le cui bellissime canzoni, spesso, erano inficiate da produzioni un po’ loffie.
Hai pensato magari, appena speriamo migliorino le condizioni di stallo legate alla pandemia, di portare in tour il tuo ultimo disco anche per alcune date negli USA? Sarebbe fantastico ma penso sia impraticabile. La lingua italiana negli States non è molto considerata. Forse in altri paesi esteri ma non lì. Dei promoter radiofonici americani mi hanno contattato ma vorrebbero che fornissi loro una versione inglese di alcuni brani. Valuterò prossimamente come muovermi.
Domanda un po scontata, che riguarda invece la tua sfera personale oltre che musicale: come hai passato il periodo del lockdown? Hai per caso pensato di promuovere il nuovo album anche attraverso alcuni eventi in ‘live streaming’? Sinceramente no. Sono stato coinvolto una sola volta lo scorso anno e non è stato soddisfacente. Troppe limitazioni. O viene garantita una certa qualità sia per chi ascolta, sia per chi canta, altrimenti lo trovo controproducente. Passare interi periodi a creare qualcosa di importante e poi bruciare tutto in uno streaming di scarsa qualità, lo trovo poco coerente.
Dal 2013 ad oggi hai prodotto ben quattro lavori come solista, oltre naturalmente a svariate altre collaborazioni artistiche e musicali. Sei già al lavoro per un nuovo album di inediti per caso? No, è troppo presto. “Sotto il cielo di Memphis” ha assorbito molta energia e nell’ultimo anno non ho composto nulla. In effetti se ci penso è strano ma per arrivare a pubblicare i brani il processo di composizione, arrangiamento, registrazione è stato impegnativo. La cura dei dettagli mi ha impegnato molto e poi sono tornato al famoso DoItYourself con cui ho iniziato, e seguito passo passo tutto ciò che era necessario per la pubblicazione.
Oltre alla promozione del nuovo disco, sei occupato anche in altre collaborazioni musicali? E se si quali? Attualmente le richieste che ho ricevuto le ho educatamente accantonate. Non ho qualcuno che lavora per me per seguire tutto quello che è utile per la promozione e altro. Sono concentrato sull’evoluzione di questo album. Almeno per il momento voglio godermelo senza distrazioni.
Caro Michele, grazie nuovamente per la tua disponibilità e cortesia nel rispondere a queste numerose domande! Se potessi lasciare un consiglio ai giovani musicisti, cosa ti sentiresti di suggerire vista la tua pluridecennale carriera? Di essere sé stessi. Di non rinunciare a proporsi, scegliere una strada e capire dove porta migliorandosi. Ci sono troppe “copie” in giro. Cito Tom Waits che disse “se devo fallire preferisco farlo alle mie condizioni”!