Raggiungo finalmente un impegnatissimo e travolgente Michele Conta. L’ascolto di “Endless Night” (suo ultimo lavoro) in assoluta anteprima (per sua gentile concessione) non può che rappresentare il sottofondo musicale più adeguato all’occasione.
Parlare di musica con lui è un’esperienza profondamente affascinante, per la passione che esprime in ogni parola e per ogni emozione che condivide. Durante la piacevole conversazione mi ritrovo a parlargli del concerto dei Judas Priest a Parigi al quale ho assistito nel Gennaio 2019 e scopro, con immenso piacere, che le doti canore di Rob Halford sorprendono anche un compositore del suo calibro e della sua esperienza. È forse un assaggio dell’eclettismo musicale di Michele Conta? Lui è un fiume in piena anche lontano dalle tastiere, nel raccontarmi, con vivo entusiasmo, ogni sfaccettatura dei suoi mille interessi…dalla medicina, alla musica (in ogni articolazione), all’arte…Sembra aver perseguito, già a partire dal lontano 1977, la strada della sperimentazione musicale, cogliendo ogni mutevole risvolto artistico delle ultime decadi, in attimi di profonda e stimolante riflessione musicale. L’ascolto del disco fa vivere attimi di dolce introspezione…con vive atmosfere oniriche…
Di seguito, solo per Verorock.it e Mat2020, il resoconto dell’interessante conversazione con Michele Conta. Buona lettura a tutti!
Ciao Michele. È un piacere parlarti. Sto ascoltando la tua opera. Mi chiedo, come nasce la tua musica?
Ciao Marco. Partendo dal principio posso dirti che la mia primissima esperienza l’ho vissuta nel tentativo di fondere i miei studi di conservatorio all’ascolto di alcuni album che mi intrigavano particolarmente. Un disco più di tutti: quello con il salvadanaio in copertina, del Banco Del Mutuo Soccorso (“Banco del Mutuo Soccorso” del 1972 – n.d.r.). Sono ancora oggi fermamente convinto che Vittorio Nocenzi sia uno dei migliori compositori della storia della musica italiana. Non tutti sanno che ho studiato le sue musiche in maniera analitica e approfondita. Del rock inglese, invece, ricordo ancora uno strepitoso concerto dei Genesis al quale ho avuto il piacere, da giovanissimo, di assistere. Pensa che, all’epoca, il loro suono era ancora poco conosciuto. E lo trovavamo tutti originale e coinvolgente…poi, come per magia, nella mia vita è arrivata la Locanda…
È uno dei miei gruppi preferiti. Che esperienza è stata, per un ragazzo giovanissimo, far parte della Locanda delle Fate?
E’ stato un onore immenso. Mi reputo una persona fortunatissima ad aver fatto parte di un gruppo come la Locanda delle Fate. Sarò sempre immensamente grato a ogni “locandiere”. È merito dei miei compagni di band, infatti, se negli anni sono cresciuto artisticamente. E quanti ricordi ancora vivi ho in me…pensa che per le prove mi venivano a prendere con la macchina, perchè non avevo neanche la patente! Ero il più giovane. La mia esperienza, a differenza della loro, è stata unicamente con la musica progressive. Il resto della band, invece, aveva esperienza con il “beat” che io, per ragioni anagrafiche, non potevo conoscere. La mia fortuna fu conoscerli proprio nel momento in cui cercavano di rifondare la band. In quell’occasione, fui io a proporre Ezio Vevey, che conoscevo da quando avevo 15 anni. Attualmente, solo la scelta di riproporre i nostri dischi storici o di comporre nuove cose ci ha diviso, ma siamo sempre in sintonia, e ci vediamo spessissimo.
Abbiamo parlato di Vittorio Nocenzi, un compositore di formazione classica, come l’indimenticabile Keith Emerson. Come è possibile conciliare tali competenze, apprese nelle aule del conservatorio, con il rock progressivo? L’argomento è davvero interessante. Negli anni ho avuto modo di conoscere bene Vittorio Nocenzi, e di confrontarmi con lui anche sulla concezione della musica, grazie alla profonda amicizia che legava – sin dai primissimi anni – Leonardo Sasso (cantante della Locanda delle Fate – n.d.r.) con Francesco Di Giacomo (cantante del Banco del Mutuo Soccorso, scomparso nel 2014 – n.d.r.). Sono giunto alla conclusione che il conservatorio, per un pianista prog, costituisca un imprescindibile punto di partenza, perché lo studio classico conferisce la base tecnica sulla quale, successivamente, l’artista può esprimere il proprio gusto personale. All’elenco che hai fatto, credo sia doveroso citare Rick Wakeman (tastierista degli Yes – n.d.r.).
Nel mio caso la preparazione è parte integrante del mio bagaglio formativo. La parte compositiva, invece, è qualcosa di estremamente istintivo. In base alle emozioni, mi viene l’ispirazione e creo qualcosa, in maniera assolutamente libera, senza conoscere ancora la versione definitiva della mia idea. In via generale, credo che ogni musicista dall’approccio libero abbia l’obbligo morale di studiare approfonditamente la base classica, per dedicarsi, in un secondo momento, a provare qualcosa di diverso. E a sperimentare. A maggior ragione quando si è giovani…
Anche se la sperimentazione dovrebbe essere perseguita in ogni età, e tu credo sia un esempio anche di questa ambiziosa dedizione. Il conservatorio, però, qualcuno lo può ritenere un ambiente snob, lontano dall’idea “popolare”…È assolutamente sbagliato considerare il conservatorio come un ambiente lontano dal gusto dell’ascoltatore. Come in ogni ambito accademico, la differenza risiede negli insegnanti. Credo che sia necessario impartire sempre la tecnica in maniera adeguata, senza commettere l’errore di sminuire i gusti personali dell’artista. Anzi, rispettandoli in ogni caso. Sono fermamente convinto che una delle ragioni dell’impreparazione dei giovani di oggi sia causata dai tagli ai fondi per le attività artistiche, conservatorio compreso.
È inevitabile, date queste premesse, che il risultato sia un graduale impoverimento della società, dal punto di vista artistico. E non è un caso che la generazione di oggi sembra estremamente materialista. Noi – negli anni ‘70 – vivevamo uno stato d’animo ben diverso. Molti di noi, portando gli ideali all’estremo, rinnegavano il possesso di beni materiali. In via generale, noi cercavamo di perseguire ciò che ci piaceva, senza pensare alle cose materiali. L’esatto contrario di oggi. Oggi si accetta tutto in maniera sterile, senza spirito critico. Il rock era il mezzo di comunicazione della nostra ribellione. Ecco perché oggi c’è poco spazio per quella musica e per le sue derivazioni.
Derivazioni intese anche quali commistioni musicali. Prima che venisse coniato il termine prog, infatti, si parlava di fusion tra rock e jazz. Come si potrebbe definire, invece, una commissione tra rock e rap? Gran bella domanda, davvero…Sì. Il termine “prog” è stato coniato dalla critica in un secondo momento. Noi, all’epoca, ci limitavamo a definire “rock romantico” tutto ciò che non rappresentava una semplice canzoncina. Il prog, per me, nasce dal progetto ambizioso di spaziare in vari ambiti musicali. Prog è fare le cose in grande, con un impegno, ambizione e ispirazione. Sono fermamente convinto, però, che la mancata continuità al genere sia stata causata da alcuni artisti che, senza ispirazione, hanno ricercato il semplice tecnicismo, spesso in maniera arida. Credo che dipenda proprio da questo aspetto se le generazioni successive, che non avevano un ascolto complesso alle spalle, hanno trovato poco interessante il prog degli anni nostri.
Farò un esempio a te caro. Ricordo di aver letto che una delle tue canzoni preferite della Locanda è “Cercando un Nuovo Confine” (tratta da “Forse le Lucciole non si Amano Più” – n.d.r.). Dal punto di vista compositivo, è un pezzo semplice, ma immediato. Il testo, scritto da Alberto Gaviglio e Ezio Vevey, ha un messaggio diretto e coinvolgente. Alcuni ascoltatori mi dicevano che fa emozionare. I gruppi prog moderni hanno assimilato la parte tecnica della nostra generazione, limitando però l’espressività che troviamo, ad esempio, proprio in “Cercando un Nuovo Confine”. Credo che il rap piaccia ai giovani proprio perché rappresenta un linguaggio estremamente incisivo e diretto. Nei ghetti di Los Angeles, infatti, il rap è il mezzo di espressione musicale della ribellione, come era il rock nei nostri anni. Chi disprezza il rap dovrebbe conoscere meglio il genere prima di catalogare i gusti in musica in maniera superficiale.
La mia idea è che non basti appartenere a una certa corrente musicale per splendere di valore artistico. Reputo di maggiore spessore alcuni rapper degli anni ‘80 e ‘90, rispetto a contemporanei gruppi prog che si limitano a imitare le vostre opere degli anni ‘70 in maniera sterile e inespressiva. Condivido pienamente il concetto, anche per come l’hai espresso. Aggiungerei che bisogna avere l’umiltà di addentrarsi in un genere diverso dal proprio, dimostrando rispetto e desiderio di conoscere.
Arriviamo ai giorni nostri. Nel 2015 è Dr. Dre ad addentrarsi nel repertorio del prog italiano classico e scopre La Locanda delle Fate. Sceglie un arpeggio di pianoforte della canzone “Vendesi Saggezza e Cervello di Seconda Mano”, e decide di campionarlo per comporre “For the Love Of Money” contenuta nel cd “Compton”. Il disco giunge in nomination come miglior album rap ai Grammy Award 2015. Il film ispirato all’album di Dre “Stright Outta Compton” avrà la nomination come miglior sceneggiatura agli Oscar. Dimentico qualcosa? Sì, lo ammetto subito. Ho ricevuto gratificazione economica, oltre che artistica. Non posso lamentarmi davvero (ride). C’è da aggiungere che il direttore della Universal mi ha proposto di comporre le musiche per i loro artisti in maniera stabile e continuativa. Decisi di non accettare, nonostante la proposta mi abbia fatto estremamente piacere. L’esperienza con Dr. Dree è stata grandiosa, sotto ogni aspetto, anche se, come già potrai immaginare, sono stato aspramente criticato per la commistione prog e rap. È sufficiente ascoltare “For the Love of Money” per notare che non si tratta di rap “cialtrone”. E, alla realizzazione, hanno collaborato grandi musicisti. Per Dree una canzone può essere considerata davvero riuscita nel momento in cui, all’ascoltatore, giunge il messaggio. È la mia stessa idea di musica.
Finora abbiamo parlato delle musiche. Qual è il rapporto di Michele Conta con la stesura del testo? Me lo chiedo perché tu sei, da sempre, un grande compositore… Sei troppo buono. Diciamo che mi limito a comporre seguendo il mio stile musicale. Ultimamente ho iniziato anche a cimentarmi nella stesura dei testi. È stato tutto dettato dall’istinto compositivo del momento, come per le musiche! Ai tempi della Locanda della Fate scrissi “Crescendo”. Ora, crescendo, posso dire di aver vissuto una delle esperienze migliori della vita, anche se ora, anche grazie agli anni con la Locanda, seguo un’evoluzione artistica personale.
“Growin up” sembra un tributo all’esperienza con la Locanda. L’evoluzione artistica personale di Michele Conta giunge, nel 2019, alla pubblicazione di “Endless Night”. Anche “E’ nell’aria” è composta in pieno genere “Locandesco”, o sbaglio? Possiamo parlare di modernità del prog? Ti ringrazio. Non potevo ricevere un complimento migliore. Credo che “Endless Night” sia qualcosa di ben diverso dalle solite opere nostalgiche o revival. Il disco non ha barocchismi tipici degli anni ‘70, o virtuosismi neoprog che definirei “autoreferenziali”. Son cambiato, e, nel frattempo, anche il mondo intorno a me è cambiato. È stato un onore incidere il disco agli studi Abbey Road a Londra. Forse la scelta di suonare con musicisti giovani, a parte Gavin Harrison e il sottoscritto, è stata una giusta intuizione!
Se prima abbiamo parlato di rock inteso come mezzo di espressione dello spirito di ribellione, l’ascolto di “Endless Night” sembra comunicare un momento di profonda riflessione… mi riferisco a “With you on the walk of my life”…
Quella canzone è dedicata alla mia compagna di vita, con la quale sono in cammino da oltre 20 anni. Data la differenza di età mi sono immaginato di vederla, senza di me, a sfogliare un album ricordo dei nostri migliori momenti insieme, su una panchina in un sentiero, in un futuro mi auguro molto lontano. Mentre immaginavo il suo sorriso, nel vedere le nostre foto, ho avuto l’ispirazione per comporre “With You On the Walk”.È vero allora che ogni artista ha la sua musa. Un’altra canzone ha strofa che mi suggerisce un’immagine onirica: “…e tra i silenzi infiniti mi arriva una canzone, luce delle stelle, prendo le note più belle e le porto via con me”. Parlo di “In riva al mondo” che è stata composta durante un momento di riflessione sulla nostra interiorità più profonda. Mi chiedevo dove ci portasse la nostra quotidiana corsa, spesso forsennata. La maggior parte delle volte il traguardo è inesistente.
C’è un sottile legame con “Fiori Nascosti”?
In un certo senso, sì, perché “Fiori Nascosti” parla della fugacità delle cose più profonde e più vere, e della scarsa considerazione che diamo alle cose realmente importanti che ci circondano…almeno fino a quando non le abbiamo perse.
Cosa farà Michele Conta nel prossimo futuro?
Ti confesso che ho già in cantiere la parte compositiva di un prossimo lavoro. Posso solo anticiparti che sarà un’opera ancora diversa da quella appena pubblicata.
Non chiedo altre anticipazioni, Michele. E ti ringrazio anche per questa indiscrezione. Buon lavoro, allora. Mi aspetto qualcosa ancora più attuale della modernità del prog! A presto, Marco…un saluto a tutti i lettori di VeroRock Italia e Mat2020!