VeroRock
Image default
Interviste

SHEL SHAPIRO: “Il rock di qualità agevolerà la rinascita culturale”!

Concludo il periodo di quarantena nel migliore dei modi: intervisto finalmente Shel Shapiro. Shel, a differenza di altri artisti (anche meno affermati), si mostra subito piacevolmente disponibile e interessato. Nel prendere contatti con lui, mi anticipa di avere una curiosità storica sulla mia città: Matera. Già delle prime battute, ho la convinzione che Shel, nonostante lo status di leggenda del rock, rivolga continuamente le sue attenzioni al futuro e a nuovi progetti artistici. E sempre con uno sguardo attento e critico al contesto sociale italiano. Shel si dimostra un colto e attento osservatore delle dinamiche relazionali (anche delle conseguenze sociali della quarantena), del mondo dei giovani, del ruolo della musica nella società, e dell’uso (e abuso) della libertà, in ogni sua declinazione di significato.

Chi vi scrive, naturalmente, non poteva certo lasciarsi sfuggire l’occasione di approfondire la vicenda legata all’origine del nome “The Rokes”, sulla quale non sono mai state divulgate notizie dettagliate. L’autore del testo che leggerete, inoltre, non si è certamente sottratto dall’intento di disaminare i risvolti sociali e artistici della rivoluzione musicale iniziata negli anni ’60 in Italia. L’intento è quello di cogliere eventuali spunti di riflessione direttamente dal principale innovatore d’oltremanica. Da queste premesse, Shel, negli anni successivi, contribuirà alla crescita della musica leggera e, in particolare, alla scoperta e all’affermazione artistica di alcune delle grandi voci femminili della tradizione italiana. Senza trascurare le voci maschili.

Lascio al lettore ogni ulteriore stimolo e riflessione. Di seguito, il resoconto dettagliato della piacevole conversazione con Shel Shapiro. Stay ahead!

Ciao Shel, vorrei partire dall’attualità. Quali sono le ambizioni di Shel Shapiro per il 2020? (Intervista realizzata al termine del primo lockdown nazionale n.d.r.) Sopravvivere, in primo luogo (ride). Posso confidarti che per il 2020 avevo vari progetti interessanti da realizzare che, a causa dell’emergenza sanitaria, ho dovuto momentaneamente accantonare o addirittura cancellare, pero alcuni stanno riprendendo forma, spero una forma positiva. Ci siamo appena lasciati o forse meglio dire che stiamo lasciando alle spalle, spero, un periodo davvero spiacevole e duro da sopportare. Oltre alle dinamiche psicologiche, che non vanno assolutamente trascurate, sono abbastanza preoccupato per le conseguenze economiche del lockdown appena concluso, che dobbiamo ancora affrontare. Credo che il tessuto economico italiano fosse già in difficoltà già prima che arrivasse l’emergenza sanitaria. Sono convinto, però, che il periodo di quarantena ci ha dato la possibilità di rivolgere uno sguardo più obiettivo verso il mondo circostante, ma non so se l’abbiamo fatto, mi sembra di no.

Quasi come un periodo di riflessione forzata? Si. Sarebbe potuto essere l’unico aspetto positivo, ed anche l’unico modo per cercare di trarre qualcosa di costruttivo e propositivo da questo momento profondamente critico e imprevedibile. Il rock, se di qualità, può agevolare la ricrescita, come la buona musica in generale.

Parliamo di Rock. Quali artisti hanno ispirato il rock di Shel Shapiro? I miei artisti preferiti sono stati Jerry Lee Lewis, Ray Charles, Elvis Presley, Chuck Berry, e qualcun altro. Posso dirti che amavo ascoltare chiunque suonava quello che avrei voluto comporre io. In generale, sono cresciuto con la musica americana, di Memphis, Tennessee e Nashville. Nashville era, per me, l’epicentro della musica che amavo davvero. E che ha contribuito profondamente alla mia nascita come artista.

Chuck Berry ha lottato per la libertà di espressione. Quale è l’idea di libertà, nella società, secondo Shel Shapiro? Ho avuto modo di notare che, almeno fino ad ora, la libertà è stata unicamente un’illusione. Almeno per la mia idea di società. Si tratta, ovviamente, di un concetto molto personale. Con il rischio di sembrare retorico, posso affermare che la libertà individuale può essere considerata sostenibile finchè non lede qualcuno. Il problema di fondo è che, nella maggior parte delle volte, un concetto del genere cela un degrado profondo, anche umano, dal quale prendo le distanze radicalmente. Nessuno può arrogarsi il diritto di sentirsi libero di nuocere il prossimo. L’unico modo è avere sempre l’ambizione umana di rispettare, il più possibile, il prossimo. Può forse sembrare un concetto arcaico, ma l’esperienza ci insegna che è l’unico modo per convivere in maniera civile. Altrimenti si scade nel grottesco. E nella idea grottesca di libertà.

Contestualizzando una tematica cara alle tue canzoni, possiamo dire che la “società fondata sulla libertà” era un’idea utopistica? Avrebbe ancora senso cantare di questo tipo di società nel 2020? Non saprei. Non può esistere una società senza la libertà. L’equilibrio tra i due concetti è dato dall’uso che facciamo, tutti noi, delle nostre libertà. E delle nostre idee di libertà. Sono consapevole che si tratta di un’idea di ardua realizzazione. Per quanto riguarda il mondo contemporaneo, attribuisco gravi responsabilità all’attuale generazione dei genitori, nell’abuso della parola “libertà”. Noto che è spesso utilizzata per giustificare il degrado attribuito ai giovani del 2020, e non solo. I genitori mi sembrano quasi impauriti dal ruolo di educatore. Non può certamente parlarsi di uso legittimo del concetto di libertà, in questo caso. Credo che, direttamente o indirettamente, nessuno possa ritenersi esente da responsabilità per la degenerazione dell’uso della parola “libertà”. Ha ormai assunto un significato così inutile, per un concetto così importante e significativo.

La Costituzione è il fulcro delle libertà in Italia. Quale è il tuo rapporto con questa fonte normativa? La Carta Costituzionale è un imprescindibile punto di riferimento per tutti noi. Ho constatato, a malincuore, che la maggior parte di noi non conosce cosa rappresenta, in maniera specifica, il contenuto della Costituzione italiana. E’ proprio la scuola a non insegnare l’educazione civica. Non è possibile essere cittadini consapevoli, se non si conoscono gli ideali e i principi posti alla base della Carta Costituzionale. Pochi anni fa, mosso proprio dall’intento di divulgare il contenuto della Costituzione, cercai di trattare dei punti fondamentali che ne rappresentano la premessa, utilizzando lo strumento del rock. Avevo scritto una canzone del titolo “Undici”. Trattavo i primi undici articoli della Costituzione con Paolo Bonfanti alle chitarre. Decidemmo, con Marco Risi, grandissimo regista e grandissimo amico, di realizzare il video della mia canzone. In veritá ha deciso tutto Marco. Nel video, le immagini scorrevano in esatta contraddizione con gli articoli della Costituzione che mi accingevo a cantare. L’idea era proprio quella di sottolineare le profonde contraddizioni tra i principi e la realtà circostante. Sulla fonte normativa, non so a cosa ti riferisca in particolare.

Perdonami, Shel. E’ scappato un termine in avvocatese. Significa che la Costituzione dovrebbe ispirare ogni legge approvata in Italia. E anche l’applicazione della legge stessa. Sulle contraddizioni tra Costituzione e realtà circostante, posso dirti che il mio professore di diritto pubblico, già dal primo giorno di lezione, ci spiegò che la Costituzione è una lunga sequela di ideali perseguiti dalla nostra Repubblica, ambiziosi e purtroppo non sempre realizzabili nel quotidiano. Mi sono sempre chiesto… esiste una spiegazione a questa profonda contraddittorietà?

Credo che ci siano tante spiegazioni. E tutte molto soggettive. In tema di norma, Renzo Piano, in un’intervista rilasciata per Sky, ha affrontato l’importanza della principio (o del canone), per l’attività creativa. Tu cosa ne pensi? Credo che la regola, nel senso esposto da Renzo Piano, è intesa quale strumento di ispirazione e non come vincolo alla creatività. Occorre distinguere, però, tra regola “esterna”, data dalla realtà circostante, e regola “interna”, rappresentata dall’idea che l’artista ha in sé, e che cerca di esprimere nei confronti degli altri. La prima dovrebbe essere più stabile possibile, soprattutto per la continuità delle relazioni sociali. La seconda, invece, può essere modificata in ogni occasione, anche in base all’ispirazione o stato d’animo del momento. Credo che l’idea “interna” rappresenti una caratteristica soggettiva e umana, prima che artistica. E che la creatività stessa possa contribuire a rendere l’artista ancora più umano.

Credo che sia stato Frank Zappa a affermare che “senza deviazione dalla norma, il progresso non è possibile”. Quale è il parere di Shel Shapiro sul rock progressivo? Non sapevo di questa dichiarazione ma sono d’accordissimo con il concetto. Credo che Zappa sia stato una figura illuminante della musica. Posso dirti, però che il prog è un genere che mi appassiona poco. Naturalmente, come per ogni varietà di musica, c’è qualcosa che apprezzo e rispetto anche nel rock progressivo. Ho sempre avuto l’impressione però che i musicisti progressivi esasperassero le note di una composizione musicale, come i cantautori negli anni ‘70 l’esasperassero l’uso delle parole. Mi viene in mente Keith Jarrett con il suo the Köln Concert. Tre note ed é magia. Non ne occorrono 333!

I Rokes, a differenza di altre band, avevano la peculiarità di avere molto materiale proprio, oltre a una impeccabile pronuncia della lingua inglese. Come è nato il progetto Rokes? Puoi dirmi di più anche sull’origine del nome della band? Ci sono poche fonti a riguardo…

I Rokes

Un’ottima pronuncia della lingua inglese, direi. E la manteniamo ancora (ride). Il nome “Rokes” fu un’idea di Johnny [Johnny Charlton, chitarrista dei Rokes n.d.a.], che prese spunto dal getto verticale dell’acqua della fontana della Naiadi in Piazza Esedra a Roma. Più precisamente, Johnny fece un gioco di parole in lingua inglese. Fu un’idea immediata e banale, direi. Possiamo affermare, però, che abbia funzionato. Nel caso dei Rokes, è improprio parlare di progetto. All’inizio della carriera non avevamo progetti, ma sogni. Il progetto, infatti, prevede una destinazione da raggiungere. Per noi, era fondamentale suonare la nostra musica. Per realizzare il nostro desiderio non eravamo mossi da alcun interesse economico, se non cercare di garantirci lo stretto indispensabile per mangiare, dormire, e sostituire le corde agli strumenti. La storia dei Rokes fu assolutamente spontanea. Quasi istintiva, dire. Abbiamo il merito di aver iniziato a far sentire la musica rock in Italia, in un contesto in cui nessuno faceva rock. La nostra musica, con evidenti ispirazioni alla musica americana, ebbe enorme successo. Abbiamo portato in Italia il background appreso negli anni trascorsi a suonare a Londra a Carnaby Street nei clubs, ad Amburgo sul Reeperbahn e nelle basi americane sparse in Europa. Tutti ambienti che richiedevano un preciso stile di rock ‘n roll e Rythm’n blues. In Italia, all’epoca, mancava proprio la cultura per suonare il rock, ed anche per capirla e apprezzarla. In quegli anni, non eravamo ancora globalizzati…

Perchè l’ascoltatore italiano di quel periodo era poco colto in materia di rock? Hai forse notato un atteggiamento diffidente, tipico dell’italiano, alla nuova ondata musicale rock? Ricordo che in Italia non c’era ascolto di musica rock, né alla radio e tantomeno su Rai 1. Non poteva esserci cultura della musica rock, che poi rappresentava anche una stile di vita. Per noi fu immediato suonare la musica che ci piaceva. Notai che, dopo un po’ di tempo, iniziò a piacere anche in Italia. Credo che noi fummo i primi in Italia a suonare rock. Il successo definitivo ci fu nel momento in cui iniziammo a avere testi in italiano, e cantati con il nostro spiccato accento inglese. Credo che anche Mogol abbia contribuito al successo del progetto generale, ma anche Bardotti e tanti altri che hanno lavorato con noi. Devo riconoscere che, all’inizio, fui un po’ restio a cantare i testi in italiano. Ma questa caratteristica ha rappresentato il momento di svolta per la nostra carriera artistica.

Parliamo della stesura dei testi. Quanto è compatibile la lingua italiana con la metrica rock? o dovrei dire musica beat? La metrica rock, con la lingua italiana, è quasi del tutto incompatibile. E parlo per esperienza personale, naturalmente. Dobbiamo considerare che i nostri autori italiani, nella stesura dei testi per i Rokes, ebbero molti stimoli da parte della band. Si trattava di un lavoro creativo di squadra. Cercavamo di raggiungere l’ascoltatore. Spesso ci riuscivamo. “C’è una strana espressione nei tuoi occhi”, per esempio, prende le musiche della celebre “When You Walk In The Room” composta dalla cantautrice statunitense Jackie DeShannon. Fui io l’autore dei testi della versione dei Rokes. Ricordo che scrissi le liriche, dopo un anno e mezzo dal nostro approdo in Italia. La nostra versione è rimasta nella memoria collettiva, le altre no. Il nostro intento era quello di emozionare l’ascoltatore. “C’è una strana espressione nei tuoi occhi” può non essere considerato un capolavoro, ma la versione originale si. La ritengo una delle canzoni rock meglio riuscite di quel ventennio. Il merito è dato dalla sua semplicità e immediatezza innovativa, senza sembrare mai per un momento banale. Questo equilibrio, raramente raggiungibile nel rock, raggiunse l’ascoltatore. Ecco le ragioni del successo della canzone. Sono assolutamente in disaccordo con l’uso del termine beat per la musica degli anni ’60. La Beat generation è un’altra cosa. Era un movimento letterario nato negli anni ‘50 e rappresentata da Kerouac, Ginsberg, Ferlinghetti, Neal Cassady, William Burroughs e altri pacifisti che non credevano al sogno Americano e neanche nella guerra per la risoluzione delle controversie internazionali. La beat generation ha cambiato radicalmente il linguaggio del mondo letterario, non quello musicale. Trovo incomprensibile, e davvero fuori luogo, definire ‘Beat’ la musica degli anni ’60.

Vorrei parlare di espressioni giovanili. Qualcuno ha notato alcune similitudini tra Woodstock e i flash mob dal balcone in periodo di lockdown. Condividi il parallelismo? Non vedo alcun nesso tra le due diverse manifestazioni. Ho una considerazione davvero misera di Woodstock, nonostante l’evento musicale sia passato alla storia come momento di massima espressione e libertà del rock. In realtà, si è trattato di un’enorme trovata commerciale. E non c’era nulla di gratuito, almeno nei biglietti per i tre giorni di festival, per vedere il film dell’evento al cinema, o nella vendita del cofanetto del triplo LP (per prima volta nella storia – 3 LP). Non è un caso che i grandi nomi della musica, come Beatles e Rolling Stones, Dylan etc non fossero presenti a Woodstock.

Forse solo gli Who… Gli Who credo che rappresentano l’unica eccezione. Con Woodstock nacque l’idea del rock inteso come evento a partecipazione di massa. L’idea del festival, sotto certi aspetti. La tradizione è poi continuata con il Live Aid. Ma con Woodstock, il rock, per la prima volta, acquista anche una connotazione imprenditoriale…

La Cover tra tributo a un altro artista e espressione di creatività personale … L’idea posta alla base della cover è quella di cercare di migliorare una canzone già esistente, magari trovando un senso diverso, e aggiungendo qualcosa di personale. Per proporre ancora un esempio vicino ai Rokes, possiamo considerare che “Che colpa abbiamo noi” ha un significato totalmente differente da “Cheryl’s Going Home” di Bob Lind, che ha ispirato il nostro lavoro. Non sono paragonabili tra loro le due versioni. Sono totalmente diversi.

Una sfumatura nuova … Ma anche un arrangiamento nuovo. Se consideriamo che l’unico Paese in cui la canzone originale ha avuto successo è l’Italia. E’ possibile considerare che il merito sia della nostra “Che colpa abbiamo noi”. Non reputo Bob Lind un artista di valore assoluto, anche se era un bravo cantautori country. Ho ascoltato anche altri suoi dischi e li ho trovati assolutamente deludenti. A parte ‘Cheryl’s Going Home‘ e ‘Remember the Rain‘, non ho trovato altro di interessante. Credo Bob Lind abbia guadagnato maggiori somme dai diritti Siae per la versione dei Rokes, rispetto alle sue opere. E questo non vuole essere assolutamente un giudizio sul suo talento. Secondo me non può parlarsi di cover, nel caso di nuovo arrangiamento, e nuovi contenuti, della canzone originaria.

Si può parlare di riadattamento? Forse il termine “cover” è riduttivo e ambiguo … Condivido pienamente. La cover, rispetto alla canzone originaria, acquista vita indipendente. “Bang Bang” degli Equipe ’84, per fare un altro esempio, ha un significato molto differente rispetto alla versione originale scritta da Sonny Bono nel 1966 per Cher. Il testo in italiano fa riferimento all’amore, le liriche inglesi esprimono un senso di enorme tristezza. Non credo che la canzone originale sarebbe stato un successo in Italia, se non fosse stato per gli Equipe 84.

Argomento Equipe ’84. Shel Shapiro e Maurizio Vandelli, nel 2018, pongono fine all’annosa querelle sulla rivalità artistica tra le due band. Che rilevanza ha avuto il vostro antagonismo, negli anni?

Il termine rivalità può essere inteso in senso molto ambiguo. Nel caso nostro non si è trattato di nulla di diverso dalle dinamiche che possono esserci state, in ambito d’oltremanica, tra Beatles e Rolling Stone, per fare un esempio. In realtà, si è trattata di una competizione creata quasi del tutto dai giornalisti. I Rokes e l’Equipe 84 erano ambiziosi e competitivi come possono, e devono esserlo, due band composte da artisti di 20 anni. Creare una contesa tra due fazioni rende più agevole la conversazione. Basti guardare, per il mercato dei cellulari, al dualismo tra Iphone e Android.

Mi viene in mente la rivalità tra Niki Lauda e James Hunt … L’idea, anche superficiale e riduttiva, dei due schieramenti in contrapposizione piace molto alla gente. E spesso chi considera il mondo in questo modo semplicistico, si sente esonerato dal dover combattere in prima persona. Per qualcuno è già troppo impegnativo prendere una posizione…

Questo è un aspetto interessante. Vale anche in altri ambiti Credo valga in ogni situazione della vita. Immagino che il pallone d’oro, nel mondo del calcio, è un trofeo nato proprio per le medesime considerazioni.

Shel, credo sia arrivato il momento di conoscere la tua esperienza con la mia città. Sono stato a Matera durante la tournée che i Rokes, nel 1966, intrapresero per portare in scena lo spettacolo teatrale “Il Finimondo”, insieme a Lucio Dalla e Luciana Turina. Ricordo di aver pernottato nell’albergo più elegante e accogliente della città, proprio nei pressi del teatro Duni, e di essermi addormentato alle 4 del mattino, dopo aver trascorso una piacevole serata insieme alla band. L’albergo, in quegli anni, non aveva l’aria condizionata, per cui lasciai la finestra aperta, per le temperature afose. Dopo poche ore di sonno fui svegliato di soprassalto, dal rumore assordante di un operaio che, con un martello pneumatico, era intento a fare dei lavori in strada, proprio all’altezza della nostra finestra. Pensa che, in pochi attimi, scesi dal letto, e mi avvicinai alla finestra, abbastanza risentito per il brusco risveglio. In quell’istante l’operaio, senza distogliere l’attenzione dal suo lavoro, cominciò a fischiettare allegramente il motivo di “Piangi per me”. Ricordo che la stizza si placò all’istante, e che iniziai a provare un senso misto di orgoglio e di affetto. Orgoglio perchè avevo la dimostrazione che la nostra presenza in città aveva lasciato qualcosa. E affetto perchè pensai che quella era la prima volta in cui potevo notare gli effetti della nostra musica. E l’operaio non poteva sapere i Rokes si trovavano proprio a pochi metri da lui, e che cercavano di riposare. Senza riuscirci, per l’esattezza. E’ un ricordo a me molto caro… per non parlare del meraviglioso centro storico di Matera.

Con il rischio di sembrare di parte, dico che sono d’accordo. Ho la fortuna di lavorare proprio in quella zona. Credo che sei uno dei pochi artisti che, nonostante la lunga carriera, possa vantare una costante evoluzione, sin dai lavori giovanili fino alle attività più recenti. Posso dire che un artista debba sempre evolversi, in rapporto alla propria espressione artistica. Non vedo alternative.

La tua evoluzione, a partire dal rock dei primi anni ’60 sino alla carriera da attore, denota, in ogni sfumatura, una profonda coerenza. Quale è il tuo segreto? Qualcosa di meno solenne di quello che credi. Sono molto riflessivo nelle cose che faccio. O prendo sempre molto tempo per fare le mie valutazione o decido all’istante. Ho troppo timore di fare cazzate…e poi magari le faccio!La musica rock, se di qualitá e bella, può solamente aiutarti a capire qual é la musica non bella!

Related posts

MAX WEINBERG: The Architect of Drums! Lo storico batterista della E Street Band in esclusiva per VeroRock.it

Raffaele Pontrandolfi

SOUND STORM, Rimini, 07/08/12 – Report Show ed intervista alla band!

Marcello Dubla

SAXON, Nibbs Carter ci racconta tutto!

Redazione

Leave a Comment

This site is protected by reCAPTCHA and the Google Privacy Policy and Terms of Service apply.